La polemica di Michele Santoro: “Gomorra semplifica, la realtà dei baby boss di Napoli è il mio Robinù”

“Tu queste cose le devi fare ora. Perche’ cosi’, se vai in galera per vent’anni, esci e hai tutta la vita davanti?. E’ questa la concezione del mondo di quei soldati bambino che a 15 anni imparano a sparare, a 20 sono killer consumati e a 30 spesso non ci arrivano nemmeno. Robinu’ e’ il documentario scritto e diretto dal giornalista e conduttore Michele Santoro che racconta per la prima volta sul grande schermo la storia dei baby boss. Si tratta di giovani, molto spesso minorenni, anche non appartenenti a famiglie camorristiche, che non vedono alternative di vita diverse da quelle che portano a sparare ad altezza uomo, seminare il terrore ed ottenere il controllo a Napoli e dintorni dello spaccio della droga. E allora si uccidono tra loro a colpi di kalashnikov in una guerra che e’ arrivata a contare oltre 60 morti e che i giudici hanno chiamato ?la paranza dei bambini? (e’ anche il titolo del nuovo libro di Roberto Saviano), perche’ coinvolge ragazzi nati quasi tutti tra il 1995 e il 1999.

Presentato Fuori concorso alla Mostra del cinema di Venezia nella nuova sezione non competitiva “Cinema nel Giardino, il documentario raccoglie cosi’ le testimonianze autentiche degli aspiranti boss rinchiusi sia a Poggioreale, nel braccio dei novizi, sia nel carcere minorile di Airola. ?Durante le riprese, girate tra Napoli e Scampia, quello che e’ venuto fuori in modo struggente e’ il carattere ambiguo di questi ragazzi?, spiega Santoro alla stampa. ?Perche’ mentre la fiction e’ costretta a tipizzare i personaggi, noi abbiamo scoperto che dietro la ferocia criminale, si nasconde un’umanita’ sorprendente. Ad esempio Michele e’ considerato una star del crimine da tutti i suoi coetanei, le donne gli inviano lettere d’amore, ma piange quando parla della madre?.

Nel suo documentario, che arrivera’ nelle sale nella seconda meta’ di ottobre distribuito da Videa, Santoro denuncia la totale assenza delle istituzioni. ?Mi chiedo come sia possibile fare finta di niente di fronte a ragazzi giovanissimi che hanno evaso qualunque obbligo scolastico, non parlano italiano, e hanno i denti gia’ devastati dalla droga?. Ma non c’e’ il rischio umanizzare e quindi assolvere dei giovanissimi boss? ?Si tratta invece di un’emergenza che continuiamo ad ignorare?, ribadisce Santoro. ?Non si fa abbastanza per cambiare il destino di questi ragazzi. C’e’ la convinzione generale che sfuggano a qualsiasi tentativo di recupero. E’ un’ipocrisia che ci impedisce di vedere che a Napoli esiste un welfare criminale che si sostituisce ai pezzi dello Stato, dove i proventi della droga sono l’unica fonte di guadagno di un intero popolo di giovanissimi mandato al macello?.

A collaborare alla realizzazione del documentario anche la sceneggiatrice Maddalena Oliva. ?Nelle carceri minorili mancano attivita’ formative capaci di produrre in questi ragazzi cambiamenti positivi. La rivolta nel carcere di Airola di qualche giorno fa, e’ la dimostrazione che dentro, come fuori, i baby boss continuano a farsi la guerra per dimostrare chi e’ il piu’ forte?. Il giornalista regista si augura infine che il documentario possa essere trasmesso dalla Rai. ?Il nuovo gruppo dirigente Rai e’ sensibile, attento e colto ma e’ come se fosse piegato ad una logica della rappresentazione del reale ordinata, pedagogica, ispirata ai buoni sentimenti, bisogna invece fare un atto coraggioso anche queste realta’. Ma il mio piu’ grande sogno e’ che il pubblico si impadronisca di questo film e gli dia lo spazio di mercato per farlo vivere?

«Femmene, potere, soldi. Questa è la malavita». Dietro le sbarre del carcere di Airola, a Poggioreale, la realtà di fuori non si scolora nell’impatto con le asprezze del quotidiano. La realtà di fuori, per i guaglioni delle «paranze», continua ad essere la sola normalità conosciuta.

La galera, solo un intervallo tra il prima e il poi, «una serie di calendari» come dice sprezzante uno di loro, «e quanto tempo ci vuole a fare passare un calendario? Niente».
Niente. La scuola vale niente, la vita vale niente per i baby boss di Scampia e del centro storico, per i ragazzi neppure ventenni che hanno cambiato la geografia criminale di Napoli. «Per morire bastano tre secondi, io uccido te o tu uccidi me, è normale» dice quello più deciso del gruppo alle telecamere di «Robinù», il potente documentario che Michele Santoro ha mostrato ieri alla Mostra del cinema di Venezia e in autunno farà uscire nelle sale portando per la prima volta sullo schermo «la storia di un intero popolo ridotto a carne da macello». Il racconto della faida che negli ultimi due anni ha visto combattersi a Napoli bande di adolescenti armati di kalashnikov per il controllo del territorio e del più grande mercato di spaccio d’Europa, fatto dalla viva voce dei protagonisti. A volte dietro le sbarre, a volte nel dedalo di vicoli diroccati del centro, a volte nei bassi eduardiani dove non entra mai il sole e dove crescono, piccoli ostaggi di un destino infame, i figli delle spacciatrici agli arresti domiciliari.

«Eravamo partiti dal racconto delle paranze nate dallo sgretolamento delle vecchie famiglie camorriste e ci siamo trovati di fronte a una lezione pasoliniana» dice Santoro, qui all’esordio nella regia, ma sempre con lo stile e il linguaggio dell’inchiesta che non sfigurerebbe in una prima serata televisiva da servizio pubblico. «La rivolta dei ragazzi contro la centralità dei vecchi boss, la forza delle immagini che ha reso superfluo il commento: da questo abbiamo ricomposto la concezione del mondo di bambini soldato che imparano a sparare a quindici anni, a venti sono già killer professionisti e non sempre arrivano ai trenta».
Una grande realtà dimenticata, la definisce il giornalista, pronto a tornare su Raidue dal 5 ottobre, e proprio da Napoli, ma è di ieri l’ennesima «stesa» di un gruppo di fuoco in pieno centro cittadino, calato dai budelli dei Quartieri Spagnoli, e di pochi giorni fa la notizia della partecipazione di un bambino di otto anni nella baby gang che ha pestato a sangue un ucraino. Le pagine di cronaca ne sono piene. «Certo, ma la vera questione è un’altra e riguarda l’importanza del welfare criminale che si regge sui proventi del traffico di droga e ci permette di non occuparci di loro. Di fingere che non esistano. Si impegnano anche uomini e mezzi per combattere questo fenomeno malavitoso, ma manca un grande piano di risanamento sociale e urbanistico. Ecco la vera ipocrisia dei nostri tempi.


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