I pm e i loro collaboratori, quando nelle inchieste si imbattono in utenze che potrebbero essere in uso a parlamentari, anche se intestate a società o a partiti e non direttamente a senatori o deputati, devono fermarsi, e chiedere al Parlamento l’autorizzazione ad acquisire quei tabulati. Né i possono difendersi dall’accusa di aver abusato delle loro funzioni sostenendo di non aver avuto “piena contezza” del fatto che i numeri ‘intercettati’ erano degli ‘onorevoli’. Il principio che rafforza la tutela delle comunicazioni degli eletti è affermato dalla Cassazione nelle motivazioni della sentenza del processo ‘Why not’ che ha visto assolti in appello l’ex pm di Catanzaro e attuale sindaco di Napoli Luigi De Magistris e il suo ex consulente Gioacchino Genchi. La sentenza depositata oggi è relativa all’udienza dello scorso 22 settembre. Per questo motivo i supremi giudici hanno accolto il ricorso, limitatamente agli effetti civili, contro la sentenza di assoluzione di De Magistris e Genchi, emessa nel 2015 dalla Corte di Appello di Roma presentato da Clemente Mastella, Francesco Rutelli e Sandro Gozi che chiedono il risarcimento dei danni per la lesione delle loro prerogative di parlamentari durante l’inchiesta ‘Why not’ nella quale fino all’ottobre 2007 sono stati intercettati senza il permesso del Parlamento. L’immunità parlamentare – riformata dalla legge 140 del 2003 – deve intendersi violata, scrive la Cassazione, non solo quando il pm o il suo collaboratore acquisiscono o elaborano dati in assenza dell’autorizzazione, ma anche quando “alla luce degli atti di indagine esistenti, abbiano la consapevolezza di accedere alla sfera di comunicazione di deputati o senatori, a prescindere dal fatto che il procedimento riguardi terzi o che le utenze sottoposte a controllo appartengano a terzi, oggetto della rappresentazione dei soggetti agenti deve essere questa seconda situazione di fatto”. Rileva la Cassazione che la tesi della Corte di Appello, secondo la quale Genchi e De Magistris non erano consapevoli della riconducibilità delle utenze a Gozi, Mastella e Rutelli, “è il risultato di una osservazione generica ed indeterminata la quale non si confronta in alcun modo con gli elementi esposti nella sentenza di primo grado”, conclusasi con la loro condanna. Il verdetto del Tribunale, sottolinea la Cassazione, aveva “raggiunto le sue conclusioni esponendo ed analizzando in modo dettagliato e puntuale gli elementi relativi a ciascun parlamentare”. Per gli ‘ermellini’, la “palese lacunosità” delle motivazioni dell’assoluzione di Genchi e De Magistris si desume da affermazioni – contenute nel verdetto di appello – quali: “non si può sostenere che sia pienamente provato che i due imputati avessero piena contezza che i numeri rinvenuti nelle agende e rubriche del Saladino fossero tutti da ricondurre a soggetti protetti dal Parlamento”. Con frasi del genere, i giudici di merito hanno ragionato – afferma la Cassazione – “come se oggetto della prova fosse la situazione globale di tutti gli interessati e non la situazione concernente ciascun singolo membro del Parlamento, in quanto individualmente titolare delle prerogative dirette alla salvaguardia del libero esercizio della funzione parlamentare”. Ora il giudice civile – ai soli fini risarcitori essendo tutto prescritto – valuterà le richieste dei tre intercettati nell’inchiesta che portò nel gennaio 2008 alla rovinosa caduta del governo di Romano Prodi, anche lui tra i numerosi intercettati.