Strage del bus: “Era vecchio e malandato”, il racconto dei superstiti in aula

Era un pullman malandato e il giorno prima di ritornare a casa si era rotto anche l’impianto di aria condizionata. “Non piaceva a nessuno perche’ era vecchio”, raccontano i sopravvissuti all’incidente sulla A16 Napoli-Canosa del 28 luglio 2013. Annalisa Caiazzo era a bordo del bus Volvo, e tra le 40 vittime del volo del mezzo nella scarpata del viadotto Acqualonga ci sono anche i suoi genitori. Suo marito e sua figlia hanno riportato danni permanenti. “Mio marito e’ stato due mesi in rianimazione – ricorda davanti ai giudici del tribunale di Avellino che celebrano il processo a carico di 15 persone – e per due volte me lo hanno dato per spacciato. Mia figlia si e’ spaccata la testa ma e’ viva, vorrebbe camminare ma non puo’ e io non so come spiegarglielo”. E i segni di quell’incidente sono anche sul suo volto. “La mia faccia non potra’ essere piu’ quella di prima” dice prima di cominciare il racconto degli ultimi istanti di quel viaggio.

Per chi e’ sopravvissuto all’incidente gli straschichi non sono soltanto fisici. A qualcuno il matrimonio e’ finito. Lo racconta proprio il marito della donna, Gennaro Schiano di Cola. “Dopo l’incidente – dice – si sono create condizioni che hanno spinto me e mia moglie per il bene dei nostri figli a separarci”. Una conseguenza, come le continue operazioni cui viene sottoposta la figlia di Annalisa Caiazzo: “Era sanissima mia figlia, e l’altro bambino non ha piu’ i suoi genitori perche’ devo ‘parcheggiarlo’ per seguire mia figlia”. Con la coppia c’erano anche i genitori in gita. “Proprio mia madre mi disse che quello non era il solito pullman – riferisce in aula la teste – avevamo notato che qualcosa non andava gia’ il giorno prima, quando con difficolta’ l’autista aveva fatto delle manovre in un parcheggio. E allora pensai che se fosse successo qualcosa non avrei potuto portare subito fuori i miei figli”. Annalisa era seduta in fondo al bus nel viaggio di rientro da Pietrelcina a Pozzuoli. E ha sentito distintamente qualcosa che all’improvviso ha rallentato il mezzo, che in salita procedeva lentamente. Poi la corsa a zig zag lungo la discesa prima del viadotto. “Ricordo la sensazione del vuoto – racconta – il pullman e’ stato per qualche istante fermo prima di precipitare. Poi non ricordo piu’ nulla”. Piu’ nitido il ricordo di suo marito Gennaro Schiano Di Cola, che la segue nella testimonianza al processo. “Era lento in salita e in galleria ho sentito una puzza di bruciato incredibile – dice – poi in discesa il pullman era molto piu’ veloce e urtava macchine a destra e sinistra. Ha sbattuto contro il guard rail e poi contro le barriere ed e’ ritornato sulla corsia. Altri urti ma prima di precipitare non andava tanto veloce, anzi ho avuto la sensazione che fosse fermo”.

L’autista in piedi che reggeva il volante e cercava di frenare anche con il peso del corpo, nel pullman urla e panico, e l’organizzatore della gita, affianco all’autista con un rosario tra le mani che invitava i passeggeri a preparare le anime a Dio. E’ l’ultima immagine nitida che Partorina De Felice ha ancora davanti a se’ quando ripensa alla gita nel “pullman della morte”, come lo ha definito dinanzi ai giudici del tribunale di Avellino, testimoniando nel processo a carico di 15 persone, tra le quali il proprietario del bus Gennaro Lametta, i vertici di Autostrade per l’Italia e due funzionari della Motorizzazione civile di Napoli, tutti imputati a vario titolo per la morte di 40 persone nell’incidente del 28 luglio 2013. “Il marito di Clorinda Iaccarino – ricorda la teste che ha perso nell’incidente marito, cognata e nipote – era andato dall’autista e gli aveva detto ‘Ciro fermati e falli scendere’. Ma lui rispose che non poteva perche’ avrebbe tamponato le macchine”. Il pullman era in salita nel tratto del territorio di Monteforte Irpino dell’A16 Napoli-Canosa. Una salita che prosegue in un tunnel che si apre su una lunga discesa. “In salita andavamo piano – ricorda De Felice – e si sentivano gia’ i rumori. Poi in discesa abbiamo visto le scintille, sentivo il rumore di ferraglia. Il volo non lo ricordo, mi ricordo che mi aggrappai a mio marito e gli dissi di avere fede”. Partorina De Felice si risveglio’ nella scarpata di Acqualonga. Suo marito l’aveva protetta con il suo corpo ed era morto. Lei aveva un braccio rotto, le si era spappolata la scapola e quel braccio e’ ancora inerme. Il legale della societa’ assicurativa responsabile civile le porge una domanda di rito, chiedendo se sia stata risarcita. Un passaggio da verbalizzare semplicemente. Tanto basta per una reazione emotiva. “Si’, e con questo? La vita non ha prezzo e ci hanno distrutto”. I parenti delle vittime presenti in aula applaudono e neppure il presidente del tribunale sente di dover interrompere il gesto.

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