La cruenta faida dei Quartieri Spagnoli di inizio anni Novanta che ha lasciato sul selciato decine di morti tra cui anche alcune vittime innocenti è stata raccontata inq uesti ultimi mesi ai magistrati della Dda di Napoli, dal boss pentito Marco Mariano ‘o stuort. Prima quella contro la famiglia Di Biase i cosiddetti “Faiano” e poi quella contro gli “scissionisti”. Agli inizi quando i “Picuozzi” erano un’unica federazione di famiglie camorristiche in tutto il centro storico di Napoli l’ unico obiettivo era di uccidere quante più persone possibili del clan Di Biasi dei Quartieri Spagnoli. Marco Marino in alcuni verbali pubblici perchè agli atti del processo contro la cosca parla in particolare di tre omicidi, due tentati omicidi e fa i nomi di killer ed affiliati sspiegando che “…Tutti gli agguati che sono stati commessi in quel periodo erano tutti autorizzati da me e da mio fratelli Ciro. Non ce lo comunicavamo tutte le volte perché orami era automatico agire appena c’era da agire…”. Gli stralci dei verbali di Marco Mariano sono pubblicati da Il Roma. Ecco alcuni stralci importanti.
LA FAIDA DEI VICOLI
“Questo omicidio si inserisce nell’ambito della faida con i Di Biasi che in quel momento storico, tra la fine del 1989 e l’inizio del 1990 ha raggiunto una fase molto cruenta che ha portato a morti e feriti, anche a tanti morti innocenti. In quel periodo i principali gruppi di fuoco che erano incaricati di colpire Di Biasi e gli affiliati dei Di Biasi, erano il gruppo di Sant’Anna di Palazzo capeggiato da Salvatore Cardillo che era composto all’epoca da Antonio Ranieri detto «Polifemo», Giuseppe De Tommaso, Esposito Raffaele detto il «Pallino», tutti e tre deceduti. Questo gruppo all’epoca era già in procinto di realizzare la scissione da noi Mariano e quindi si muoveva in competizione con gli altri gruppi fa- centi capo a Mariano e in particolare a quello di Montesanto capeggiato da Vincenzo Romano e composto da Arturo Taglialatela, deceduto, Salvatore Terracciano detto “’o nirone”, mio fedelissimo, Ciro Lepre detto “lo sceriffo” i suoi fratelli ed affiliati che ora non ricordo. C’era poi anche il gruppo delle cosiddette “Teste matte” composto da Paolo Pesce detto “chipeppe”, Lucio Morrone, Gennaro Oliva, il cugino di Gennaro Oliva detto “giubba rossa” ed altri”.
IL MIO TENTATO OMICIDIO
“Ricordo che nel settembre del 1989 ci fu un episodio che riguardò la mia persona e cioè Gianfranco Di Biasi del clan Di Biasi, contro il quale noi abbiamo sempre avuto contrasti, organizzò un agguato nei miei confronti travestendosi da donna. Ricordo che mi aspettò nei pressi della casa di mia madre in vico Cariati numero 45, abitazione che mi è stata confiscata nel corso di un pro- cedimento per il quale sono stato anche condannato, sia io che mio fratello Ciro. Gianfranco Di Biasi esplose anche tre colpi al mio indirizzo, ma io ero abbastanza distante ed accompagnato da miei affiliati tutti armati come avveniva di solito che risposero immediatamente al fuoco e misero in fuga Di Biasi…”.
LA RISPOSTA IN VENTI MINUTI
“Dopo questo episodio ci fu la nostra risposta ed in particolare, il gruppo composto da Vincenzo Romano, Salvatore Terracciano, Ciro Napolitano, tale “balotto”, di cui non ricordo il nome e non ricordo bene se ci fosse anche Ciro Lepre. Questo gruppo subito dopo l’episodio dell’agguato nei miei confronti, in sella ad alcune moto e tutti armati si recarono nella zona delle “cavaiole”, in particolare in vico Politi Politi, ed uccisero un affiliato di Di Biasi di cui non ricordo il nome ma che saprei riconoscere anche se solo in foto. Poche ore dopo, la stessa serata, sempre le stesse persone che ho indicato sopra del gruppo di Montesanto, commisero l’omicidio di un altro affiliato al clan Di Biasi, di cui non ricordo il nome e non so dirvi se saprei riconoscerlo in foto. Vo-
glio precisare che in quel periodo il capo indiscusso del clan Mariano era mio fratello Ciro detto il “Picuozzo”, al di sotto del quale cero solo io come responsabile del clan Mariano ed al quale facevano riferimento tutti gli altri associati. È chiaro dunque che in quel periodo, poiché si trattava di combattere una guerra contro il clan Di Biase, nostro storico avversario, gli omicidi che venivano commessi in risposta gli omicidi commessi da Di Biasi ai danni di nostri affiliati, per esempio l’omici- dio di Arturo Equabile, erano autorizzati tutti da noi e degli stessi noi avevamo piena consapevolezza. Voglio precisare che l’autorizzazione a commettere gli omicidi non riguardava tutti gli affiliati indistintamente, c’era una precisa gerarchia di comando in cima alla quale c’era mio fratel- lo Ciro, poi c’ero io, e poi il cosiddetto “stato maggiore” composto da Vincenzo Romano, Salvatore Cardillo, Vincenzo Pascucci, Giovanni Trongone, Arturo Taglialatela, ed altri».
IL SUMMIT E I SOSPETTI
“Tornando alla sera degli omicidi, quella sera dopo gli omicidi ricevetti a casa Vincenzo Pascucci, referente del gruppo di Palazzo Amendola, chiedendomi cosa fosse successo e mettendosi, ovviamente al mio fianco. Io mi lamentai con lui dicendogli che gli unici che non si erano fatti vedere erano quelli del gruppo di Sant’Anna di Palazzo capeggiato da Salvatore Cardillo. Io già all’epoca sospettavo quello che poi sarebbe successo dopo qualche mese e cioè la secessione del gruppo Mariano, ma il giorno dopo convocai tutti i responsabili dei gruppi, il cosiddetto “stato maggiore”, a Palazzo Ammendola dal mio fedelissimo Vincenzo Pascucci e lì, praticamente, contestai a Cardillo che non si era ha fatto proprio vedere. Lui si giustificò dicendo che erano a cena e che lo avevano saputo il giorno dopo, dicendo che lui e il suo gruppo erano a nostra disposizione tant’è che dopo qualche mese, proprio per di- mostrarmi fedeltà, organizzo l’omicidio di Giuseppe Campagna, affiliato di Di Biasi. Anche per questo omicidio vale il discorso che ho fatto sopra e cioè, sia io che mio fratello Ciro abbiamo autorizzato questo omicidio nell’ambito della faida. Il nostro ordine era quello di eliminare chiunque dei Di Biasi facesse la guerra a noi, ma nessuno poteva permettersi, autonomamente, di eliminare un parente, una persona di Di Biasi che nulla aveva a che fare con la faida”.
L’OMICIDIO CAMPAGNA
“Per quanto riguarda l’omicidio di Giuseppe Campagna, ricordo che mi avvisarono la sera stessa dell’omicidio Salvatore Terracciano e il gruppo di Sant’Anna di Palazzo capeggiato da Salvatore Cardillo, composto anche Paolo Pesce, Gennaro Oliva, Gennaro Oliva detto “giubba rossa” ed altri facenti parte del cosiddetto gruppo delle “Teste matte”. Quella sera ci trovavamo all’interno di un basso di proprietà di mio fratello Ciro dove spesso ci intrattenevamo. Mi ricordo che oltre a me c’erano Giuseppe Ammendola ed altri, mio fratello Ciro non era presente ma, come ho detto era libero in quanto latitante. Non ricordo se c’era anche Salvatore Cardillo all’in- terno del basso, ma ricordo che successivamente ho parlato con lui di questo omicidio e mi ha confermato che era stato il suo gruppo ad organizzare e commettere l’omicidio. Io non ricordo neppur e né mi sono informato nel dettaglio, così come mio fratello Ciro di questo omicidio, in quanto ormai, nell’ambito di questa faida, si realizzavano omicidi quasi in automatico e quindi non era più necessario ragguagliare Ciro per ogni omicidio commesso. Salvatore Terracciano mi disse che a commettere materialmente l’omicidio era stato lui insieme ad Gennaro Oliva. Non ricordo se mi disse che all’omicidio aveva partecipato anche Paolo Pesce e anche il cugino di Gennaro Oliva che faceva parte dello stesso gruppo. L’omicidio Campagna fu commesso nei prestiti della pa- sticceria “Mastracchio” ai Quartieri Spagnoli. Io conoscevo solo di vista questo Campagna che sapevo che era affiliato ai Di Biasi in quanto camminava armato con loro, voglio precisare che come me e mio fratello Ciro, Salvatore Cardillo è responsabile di altri omicidi di cui mi riservo di parlare”.
DUPLICE OMICIDIO DEI CARDILLO
“Un episodio che determinò in modo insanabile alla rottura con il gruppo Cardillo fu un clamoroso duplice omicidio. Io venni a sapere che dietro a questo duplice omicidio c’erano Salvatore Cardillo e Raf-faele Esposito detto “pallino”. Io all’epoca ero latitante e volli incontrare mio fratello Ciro e mio fratello Salvatore per affrontare definitivamente il problema del gruppo di Sant’Anna di Palazzo. Ci fu una discussione molto accesa tra me e Ciro in quanto io fui molto chiaro con lui dicendogli che andavano eliminati immediatamente sia Antonio Ranieri detto “Polifemo”, poi ucciso, che Salvatore Cardillo. Mio fratello Ciro mi rispose in ma- lo modo dicendomi testualmente: “chi ti da la confidenza di pensare di uccidere dei nostri compagni?”. Io gli risposi che lui non aveva capito nulla e che queste persone costituivano per il clan Mariano una minaccia e andavano eliminate immediatamente. Ciro però non volle sentire ragioni e quindi nacque tra noi due una frattura che mi portò a trasferirmi in Spagna, a Marbella dove fui ospitato da un napoletano”.
L’AGGUATO A MARBELLA
“Dopo un po’ che io mi trovavo a Marbella, questo napoletano si propose dicendomi che poteva fornirmi dalla Spagna circa 500 chilogrammi di hashish da trasportare a Napoli con i camion, e poi venni a sapere da “capocchione” che questo napoletano voleva essere pagato in anticipo. Io presi questa sua richiesta con un affronto e per questo ordinai il suo omicidio che fu commesso materialmente da “omissis”. Dopo questo omicidio io incaricai il “capocchione” di organizzare il traffico di hashish dalla Spagna a Napoli fino al mio arresto nel 1990, proprio nel contesto di tale traffico fu arrestato a Roma con il camion di circa di 700 chilogrammi di hashish. Io per l’omicidio a Marbella fui assolto”.