“Ho scritto io quella lettera, non e’ stato Stefano Binda”. Il colpo di scena e’ arrivato nel corso della prima udienza del processo che si e’ aperto oggi davanti alla Corte d’Assise di Varese a carico di Stefano Binda, il 50enne accusato di aver ucciso trent’anni fa la studentessa Lidia Macchi, massacrata con 29 coltellate nel gennaio 1987. Una persona, di cui al momento non e’ stata resa nota l’identita’, secondo quanto hanno riferito i difensori dell’imputato nei giorni scorsi ha contattato un avvocato di Brescia e ha ammesso di aver scritto il componimento anonimo ‘In morte di un’amica’ inviato alla famiglia di Lidia Macchi il giorno dei funerali della studentessa di Comunione e Liberazione. Versi in stampatello, su un comune foglio per appunti, che descriverebbero gli istanti dell’omicidio “in una notte di gelo”, descrivendo la ragazza come un “agnello purificato, che pieghi il capo timoroso e docile”. Il componimento, con riferimenti che secondo gli inquirenti solo l’assassino poteva conoscere, era stato attribuito a Binda sulla base del racconto di una donna, all’epoca amica dell’imputato e di Lidia Macchi, che quasi trent’anni dopo il delitto aveva riconosciuto la sua scrittura, e di esami calligrafici disposti dal sostituto pg di Milano Carmen Manfredda (ora in pensione e sostituita dal magistrato Gemma Gualdi per rappresentare l’accusa nel processo a Varese), che nel 2013 aveva avocato le indagini sfociate nell’ arresto dell’uomo, ex compagno di liceo della vittima. Si tratta di uno degli elementi che hanno indirizzato i sospetti su Binda ed e’ alla base dell’impianto accusatorio a suo carico. Questa nuova testimonianza, secondo la difesa, “scagiona” l’uomo. Per questo gli avvocati Patrizia Esposito e Sergio Martelli hanno ottenuto dai giudici la convocazione come testimone dal legale bresciano contattato dal presunto autore del componimento, che lo scorso 4 aprile ha inviato una lettera alla difesa, alla Corte d’Assise e alla Procura generale di Milano, spiegando di aver ricevuto il mandato per riferire in aula che “un’altra persona ha scritto la lettera” mantenendo il segreto professionale sull’identita’. “Il nostro assistito era commosso – ha spiegato l’avvocato Esposito – quando lo abbiamo incontrato in carcere per informarlo di questa importante novita'”. Sulla nuova testimonianza, la cui attendibilita’ dovra’ essere vagliata dai giudici della Corte d’Assise di Varese presieduti da Orazio Muscato, e’ scettico l’avvocato Daniele Pizzi, legale della famiglia Macchi in aula accanto a Paola Bettoni, la madre della ragazza, che si e’ costituita parte civile nel corso dell’udienza preliminare assieme ai due figli. “Dopo trent’anni di sofferenza – ha spiegato la donna – finalmente si apre il processo sulla morte di mia figlia. Spero che emerga la verita’, non voglio un colpevole a tutti i costi ma voglio che si faccia chiarezza dopo tanti anni”. Nell’aula bunker del Palazzo di giustizia di Varese anche Stefano Binda, che si e’ sempre proclamato innocente. I suoi difensori hanno avanzato una nuova richiesta di scarcerazione. Intanto sono ancora in corso le analisi sulla salma di Lidia Macchi, riesumata l’anno scorso, affidati dal gip di Varese a un pool di esperti coordinati dall’anatomopatologa Crisitina Cattaneo, che stanno cercando sui resti tracce che dopo trent’anni potrebbero ricondurre all’assassino.Â