Delitto di Elena Ceste, le motivazioni dei giudici: “Il marito premeditò l’omicidio”

L’omicidio di Elena Ceste fu premeditato dal marito, Michele Buoninconti, il vigile del fuoco originario di Angri in provincia di Salerno. Lo scrivono i giudici della Corte d’Assise d’Appello di Torino, nelle motivazioni depositate dopo la sentenza di condanna a 30 anni nei confronti dell’uomo. Il delitto di Elena Ceste venne commesso in casa sua il 24 gennaio 2014, esattamente attorno alle 8.43 e il corpo venne poi trasportato nel luogo dove venne trovato 9 mesi dopo. Sul fatto che a commettere questo fu il marito Michele Buoninconti la corte d’Assise d’Appello non ha dubbi. “Elena Ceste non si suicidò, nè fu vittima di morte accidentale”, si legge nelle motivazioni della sentenza. A provarlo, tra gli altri indizi pesanti, i riscontri delle celle telefoniche. Una manciata di minuti per mettere fine alla vita della madre dei suoi quattro figli. Se lo stato del cadavere non ha permesso di dare una risposta certa sulle cause del decesso, il quadro probatorio va nella direzione di un delitto efferato e premeditato. Impossibile – si legge nella motivazione – che la donna sia giunta nel luogo del ritrovamento da sola, completamente nuda e in stato confusionale. L’uomo avrebbe scelto accuratamente la data del delitto, il venerdì 24 gennaio, suo giorno di riposo. Il martedì precedente, infatti, aveva scoperto sul cellulare della moglie alcuni sms secondo lui comprovanti il tradimento. Ma una delle pietre tombali su un ipotetico scagionamento di Michele Buoninconti, sarebbe venuto – secondo i giudici d’appello – dalla deposizione dell’amico vigile del fuoco, “usato quale strumento di depistaggio” durante una ricerca tra le campagne che Buoninconti avrebbe volutamente orientato in modo sbagliato.

I giudici motivando la condanna a 30 anni di reclusione parlano di un ‘disegno criminale perverso. Non solo un omicidio premeditato ma anche insinuazioni e ‘sospetti su di una persona che ben sapeva essere innocente”, ovvero il presunto amante della moglie, “ha tradito la fiducia dei figli, dei parenti e degli amici”. Infine ha occultato il cadavere con “modalita’ studiate e meditate” per impedirne il ritrovamento. Nelle 53 pagine, fitte di particolari nella ricostruzione delle indagini avviate fin subito dopo la scomparsa di Elena Ceste, nel gennaio 2014 a Costigliole d’Asti, i giudici individuano il movente nella convinzione del tradimento coniugale. I giudici tracciano anche un profilo umano e psicologico dell’imputato e parlando della sua personalità lo definiscono “padre-padrone in famiglia e individuo che ha sempre mostrato la necessità di avere tutto sotto controllo”. A incastrare l’uomo sono state inoltre “clamorose contraddizioni”, in particolare sul ritrovamento degli indumenti della vittima. Indumenti che di volta in volta nel racconto dell’uomo – scrivono i giudici – cambiavano tempo, luogo, tipologia. Si aggiunga l’assoluto “disinteresse ad un esito positivo delle ricerche, ‘tanto non la troverete mai’ ha infatti sempre detto” e le espressioni ciniche, sprezzanti che usava riferendosi alla moglie. L’imputato sarebbe più volte caduto in “incongruenze, contraddizioni e falsità” che – secondo i giudici che hanno confermato la sentenza di condanna di primo grado – liquidano ogni ipotesi alternativa all’omicidio.

Michele Buoninconti per mesi, fino al ritrovamento del corpo della donna, aveva parlato di un allontanamento volontario della consorte che sparì nel nulla a gennaio del 2014. Nove mesi dopo fu trovato il cadavere, ormai decomposto, e l’uomo fu incriminato per l’omicidio.


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